Biografia

La vita di Silvio Trentin

Silvio Trentin, un democratico all’opposizione (di Moreno Guerrato)

Silvio Trentin

Silvio Trentin

La figura di Silvio Trentin (1885-1944) è tra le più vigorose e affascinanti dell’antifascismo italiano.
Negli scritti del giurista veneto, Piero Calamandrei ravvisava forse la più convincente dimostrazione della «vera natura politica e giuridica dell’ordinamento fascista, che i costituzionalisti italiani per servilismo o per paura continuavano a rappresentare nei loro libri come una perfetta incarnazione dello «Stato di diritto» (Lettere 1915-1956, a cura di G. Agosti e A. Galante Garrone, Firenze 1968, tomo II, p. 391); nè da meno si può considerare il contributo teorico che Trentin, davanti alla crisi delle democrazie occidentali e alle promesse incompiute della Russia dei soviet, seppe dare alla costruzione di una società nuova in Italia e in Europa. Tutto ciò attraverso una continua, sofferta disputa con se stesso e una tale vitalità, nel rifondare il proprio credo ideologico, che lo avrebbe condotto dal liberalismo radicale al socialismo rivoluzionario.
Eppure Trentin è ancora poco noto, forse perchè fu un «eretico», forse perchè – parafrasando le parole di Norberto Bobbio – nei momenti decisivi si appartò quasi sempre in fiera solitudine. Nel 1980 venne pubblicata la sua biografia generale ad opera di Frank Rosengarten (Silvio Trentin dall’interventismo alla resistenza, Milano, Feltrinelli, 1980). Nel febbraio 1926 Silvio Trentin, ex deputato per la Democrazia sociale, brillante avvocato e professore universitario di diritto amministrativo, se ne andò in esilio in Francia. Si lasciò alle spalle l’agiatezza economica, il prestigio sociale e i privilegi della cattedra universitaria. Come lui disse, non poteva «continuare ad insegnare diritto pubblico, proprio quella materia che inerisce allo Stato, quando si è sotto il tallone di una dittatura che snatura e sradica quei principi stessi sui quali si fonda la vita dello Stato». Fu in quel momento una scelta controcorrente, condivisa solo da altri due colleghi, Salvemini e Nitti; e fu anche – per dirla con Paladini – una «scelta di condizione» perché da allora Trentin non insegnò più.
Si stabilì a Pavie presso Auch, nel sud-ovest della Francia.
Qui, nei primi tempi, coltivò una tenuta agricola di sua proprietà; fece quindi l’operaio tipografo, finchè nel 1934 si trasferì a Tolosa, dove gli aiuti economici degli amici gli consentirono di aprire una libreria che ben presto divenne fervente ritrovo politico e intellettuale. Pur lontano da Parigi, centro del fuoruscitismo italiano, Trentin si impegnò senza respiro nella lotta al fascismo.
Aderì, quasi sicuramente nel 1927, al partito repubblicano; si mosse nell’orbita della Concentrazione antifascista; collaborò attivamente con la Lega dei diritti dell’uomo: dal 1929 entrò a far parte di Giustizia e Libertà, divenendone con Lussu autorevole rappresentante dell’ala sinistra; suoi interlocutori in quegli anni furono – oltre allo stesso Emilio Lussu – Carlo Rosselli, Alberto Tarchiani, Francesco Volterra, nonché Luigi Campolonghi, Francesco Ciccotti e Gaetano Salvemini. Gli avvenimenti della seconda metà degli anni ’30 lo videro ancora in prima linea e protagonista di così grande rilievo da conquistare in Francia, a detta di Lussu, un prestigio superiore a quello di Carlo Rosselli

 

Vetrina della libreria

Vetrina della libreria

 

Durante la guerra di Spagna la sua Librairie du Languedoc si trasformò in uno dei principali centri di raccolta del volontariato antifascista. Certo che il successo sulla dittatura mussoliniana avrebbe potuto arridere solo a un antifascismo unito, ricercò forse più di ogni altro l’accordo con i comunisti. Significativamente doveva toccare proprio a Trentin l’incarico di ricomporre, a nome di GL, l’unità d’azione con il PCI e il PSI a Tolosa nell’ottobre 1941, dopo che il patto Molotov-Ribbentrop aveva diviso i partiti democratici.
Per Trentin comunque gli anni in Francia rappresentarono soprattutto un momento di irripetibile, feconda meditazione.
In un primo tempo concentrò lo sforzo analitico sulla struttura giuridica dello Stato fascista, dimostrando come il regime fosse pervenuto alla creazione di una nuova tipologia statuale, antitetica allo Stato di diritto, in cui l’autonomia dell’individuo veniva sistematicamente sacrificata alle «superiori esigenze» dello Stato. Proprio questa critica, condotta ancora secondo i dettami del pensiero liberale, gli doveva svelare le colpe e i limiti naturali delle democrazie capitalistiche, spingendolo sulla strada del socialismo; d’altronde l’ammirazione crescente per le realizzazioni del regime sovietico non gli impediva di riconoscerne gli elementi autoritari.
Trentin perciò si convinse dell’improrogabile necessità di una trasformazione radicale: occorreva abbattere con una rivoluzione il sistema capitalistico per sbarrare il passo ai possibili ritorni del totalitarismo fascista e dare piena cittadinanza a quei principi di uguaglianza e di libertà che, affermati in teoria sotto ogni latitudine, venivano nella pratica negati. Punto d’arrivo doveva essere una nuova società socialista, inquadrata in un ordinamento statale veramente a misura d’uomo.
Lo Stato infatti, per Trentin, non poteva essere abolito in quanto «legge nei rapporti della vita sociale». Non doveva essere un fine, un valore in sé, come invece lo concepiva il fascismo, ma un mezzo di realizzazione per la persona. L’idea di un nuovo ordine in Europa e in Italia egli così la poggiò sui concetti del collettivismo economico, come garanzia di giustizia sociale, e del federalismo e dell’autogestione, come salvaguardia delle libertà individuali e riconoscimento delle prerogative proprie a ciascun ente collettivo operante nello Stato.
Questi principi si trasfusero nel programma dell’originalissimo movimento della resistenza francese Libérer et Fédérer, fondato a Tolosa nel 1941, che ebbe in Trentin il massimo ispiratore.
Ai primi di settembre del 1943 ritornò a San Donà di Piave, sua città natale, per guidare l’ultima battaglia e per incitare ancora una volta alla lotta, come fece nell’Appello ai Veneti guardia avanzata della nazione italiana (ora in appendice a S. TRENTIN, Dieci anni di fascismo totalitario in Italia. Dall’istituzione del Tribunale speciale alla proclamazione dell’Impero (1926-1936), Roma 1975). Solo due mesi più tardi infatti, in novembre, veniva arrestato a Padova. Poco dopo lasciava il carcere per entrare in clinica a Monastier, presso Treviso, qui morendo il 12 marzo 1944.
Ricca e singolare personalità , quindi, quella di Trentin, protagonista di una vicenda umana e ideologica davvero emblematica.


La vicenda umana di Silvio Trentin

Silvio Trentin

L’estate del 1928 fu particolarmente triste per Trentin. Da più di due anni viveva in volontario esilio in Francia e nulla lasciava presagire il suo ritorno in patria. Scoramento e solitudine riempivano il suo animo di struggente nostalgia per la propria terra e gli amici lontani. A uno di questi, Bepi Roma, confessava in una lettera scritta il 13 agosto:

 

“… non passa giorno, vorrei dire non passa ora, senza che non s’imponga al mio cuore la rievocazione del passato recente, senza che il mio spirito non si senta irresistibilmente proteso verso la mia terra, senza che la mia immaginazione non mi faccia rivivere le figure dei miei compagni e rimetter a contatto la mia anima con la loro”.

 

Di lì a poco, in un’altra missiva allo stesso Roma, la moglie Beppa scriveva:

 

“Silvio è assai depresso in questo momento, e il potersi sfogare con un amico del suo Paese, del suo Paese che è in lui come una fissazione e una disperazione, gli avrebbe fatto bene”.

 

Diciotto anni durò l’esilio di Trentin e periodicamente Trentin provò il tormento della nostalgia.
Ancora più tardi, nel gennaio 1940 (a pochi mesi quindi dallo scoppio della guerra mondiale) in una conferenza tenuta a Tolosa su Giacomo Leopardi, Trentin candidamente rivelava: «A noi che il lungo esilio ha consumato in tormenti senza nome, accade di ricavare dal suo pessimismo grande conforto. E’ il poeta della disperazione che ci insegna meglio d’ogni altro a non disperare. E’ questo implacabile denunciatore delle miserie che rendono così vile la condizione umana, che ci dà la possibilità di comprendere appieno la necessità improrogabile e l’incomparabile bellezza della lotta in cui abbiamo impegnato la nostra vita».

 

Come voi vedete, lo stato d’animo dell’esiliato era diviso tra la nostalgia della patria lontana, che lo aveva indotto a cercar conforto nel poeta del dolore, e la certezza che sofferenze, lotte, sciagure non sarebbero state inutili al fine di riconquistare, insieme alla patria perduta, nuove forme di giustizia e di fraternità tra i popoli.
In effetti, oltre all’amore per la sua terra, furono costanti di Trentin la fermezza, anzi la caparbietà con cui difese la sua scelta di vita e la solidarietà autentica, spontanea con gli oppressi.
Consentitemi al riguardo, per una volta ancora, di farvi udire le sue parole:

 

“L’esilio – scriveva nella premessa ad un’opera di teoria politica – l’esilio è ben lungi dall’essere soltanto miseria o rancore o insensata e caparbia presunzione, (…) ma ha ben anche una sua grandezza e una sua bellezza incomparabile”.

 

Citava poi un passo di Victor Hugo nel quale evidentemente ritrovava il suo migliore ritratto:

 

“Sognare, pensare, soffrire. Essere solo e sentire che si è nello stesso tempo solidale con tutti e con ognuno… Maturare la propria coscienza civica e raffinare le proprie speculazioni filosofiche. Essere povero e far fronte alla propria rovina con il proprio lavoro … Non conoscere altra collera se non quella che si ispira e s’infiamma alla preoccupazione disinteressata del pubblico bene. Ignorare l’odio personale … Non spingere mai la contemplazione dell’ideale sino a dimenticare l’esistenza del tiranno. Avere due anime: la propria anima e l’anima della patria lontana”.

 

Dunque mai si spezzò il legame che univa Trentin alla sua Italia, al suo Veneto. E’ altrettanto vero però che Silvio amò con tutto il cuore la Francia e dalla Francia fu riamato. Nessun fuoriuscito italiano fu tanto noto e ammirato come Silvio Trentin. Ce lo dice Emilio Lussu. E nessun italiano rivestì un ruolo così primario e originale nella resistenza francese come Silvio Trentin, anima e guida della lotta antifascista nel Tolosano. Poteva d’altronde lui esimersi da questo impegno verso quell’asilo di libertà che gli aveva consentito di rigenerarsi nello spirito, nel pensiero, nell’azione? Forse altri, ma non certo lui che all’etica del dovere obbedì tutta la vita. Ben consapevole che la Francia era la patria degli «immortali principi dell’89», egli ne amò la lingua, la cultura, le tradizioni, in una parola la civiltà.
Trentin dunque seppe essere cittadino del mondo, ma fu tale perchè salda era la sua identità di uomo e di studioso. Un’identità maturata in questi luoghi e che dall’amore e dal ricordo di questi luoghi traeva ulteriore vitalità.

Chi infatti ha studiato il politico sandonatese ha potuto rilevare con immediatezza aspetti come l’interesse tutto positivo per gli uomini e la comunità sociale; la preparazione tecnica e l’ansia intellettuale di incidere nel concreto. In Trentin insomma non vi è posto per digressioni libresche e dottrinarie. Ciò rimanda – non vi è dubbio – alla sua formazione culturale, ma non ne spiega lo spessore, la pregnanza, il riverbero umano che è tutto suo peculiare. Pertanto – ne sono convinto – ciò nasce da un’esperienza direttamente vissuta e direttamente osservata: è l’esperienza di Trentin ragazzo con negli occhi la realtà del Basso Piave infestato dalla malaria e dalla pellagra, dove domina la palude. Ha scritto Frank Rosengarten:
«Il suo rapporto con la terra nativa era essenzialmente quello di un guaritore, di un rigeneratore, di uno che vuole usare la propria energia e le proprie conoscenze per far sì che la natura serva a scopi produttivi, volti allo sviluppo della vita. Riservato, ma appassionato, modesto nel contegno e pure straordinariamente saldo nei periodi di tensione, restio a volte a rivelare i propri sentimenti intimi e pure capace di un’intensa identificazione empatica con la sofferenza umana, ben presto Silvio Trentin abbracciò la causa della bonifica delle terre con tutto quell’entusiasmo che poi negli anni futuri avrebbe dato agli ideali della democrazia politica e sociale».

Silvio Trentin nacque l’11 novembre 1885 qui, a S. Donà di Piave, da una agiata famiglia borghese di proprietari terrieri. Entrambi i genitori, Giorgio Trentin e Italia Cian, erano figure di spicco nel gruppo dirigente cittadino, eredi di una tradizione che univa l’impegno per la vita pubblica a un moderato riformismo sociale. Sembra che spetti proprio ai Trentin il primato di aver istituito la prima cantina sociale d’Italia. Il padre di Silvio, benchè socialdemocratico e ammiratore di garibaldi, era un leale servitore della monarchia e aveva caro quanto ogni suo altro concittadino borghese il titolo di cavaliere, conferitogli nel febbraio 1893 per i suoi pubblici servigi. Era sindaco di S. Donà per la prima volta quando morì di polmonite il 27 aprile 1893, all’età di 41 anni.
Fino agli 11 anni, quando entrò in collegio a Treviso, Silvio visse nella residenza di famiglia, al numero 76 di piazza Indipendenza, al centro del paese. Ogni tanto accompagnava la madre a Mussetta, allora lontana 3 Km. da S. Donà, dove i Trentin possedevano in via Centenario la loro più bella tenuta agricola. Qui egli si familiarizzò con i ritmi della campagna e i suoi problemi, avendo per compagni di giochi i figli dei mezzadri. Nonostante la perdita del padre, a soli 7 anni, Silvio trovò rifugio e sicurezza nella forte solidarietà del nucleo familiare. Lo zio paterno, Antonio, ricco possidente e filantropo, si assunse la tutela della famiglia del fratello. La madre si prodigò amorevolmente verso i tre figli: Giorgio, il maggiore, nato nel 1881; Silvio per l’appunto; e Bruno, il minore, nato nel 1892. Aiuti e consigli vennero quindi dagli altri parenti, tra cui gli zii materni Alberto e Vittorio Cian. Su quest’ultimo è meglio aprire una breve parentesi: Vittorio Cian fu prestigioso docente di letteratura italiana prima all’università di Pisa e poi a quella di Torino. Il suo destino politico fu però opposto e ostile a quello del nipote. «Noto per la sua faziosità persecutoria» – sono parole di Luigi Salvatorelli – Vittorio Cian , già membro fondatore nel 1910 del partito nazionalista, seguì con entusiasmo l’avventura fascista, ricevendo in premio la candidatura nel cosiddetto listone del 1924 e la nomina a senatore nel 1929.
Ma torniamo ora a Trentin. I cinque anni delle elementari Silvio li compì alla scuola pubblica di S. Donà, dove guida indiscussa era il maestro Ciceri. Da lui Trentin mutuò una visione patriottica ma liberale della storia d’Italia, in cui il risorgimento era visto come conseguenza e adempimento della rivoluzione francese. E sempre grazie a Ciceri egli avvertì, per la prima volta, quell’etica del dovere di stampo mazziniano che doveva poi permeare la sua concezione della vita.
Dal 1896 al 1903 Trentin frequentò il liceo-ginnasio Canova di Treviso, ospite al collegio Nardari. Lo dirigeva Francesco Nardari, suo futuro suocero e uomo di grande vivacità intellettuale. Silvio in quegli anni era un ragazzo fin troppo esuberante e la cosa mal si conciliava con il severo senso del dovere e il rigido impegno nello studio richiesto da Nardari. Una notte del 1903 ne combinò una delle sue. Legò dei barattoli alla coda di un gatto che, fuggendo per i corridoi, svegliò l’intero collegio. Silvio fu così pregato di cercarsi una nuova sede per l’anno dopo.
Nell’autunno 1903, Trentin cominciò l’ultimo anno di liceo al «Marco Foscarini» di Venezia, situato alle Fondamenta S. Caterina, a circa dieci minuti di strada dal ponte di Rialto. La scuola godeva di ottima reputazione ed era frequentata esclusivamente dall’alta borghesia e dalle famiglie aristocratiche. Il rendimento scolastico di Trentin non fu così straordinario come ci si sarebbe dovuto aspettare da un giovane che a soli 21 anni cominciò a scrivere sulle riviste di legge più prestigiose. I suoi voti finali furono tutti 7 e 8, sufficienti però ad esentarlo dagli esami. I voti in condotta erano esemplari. Ma Silvio non aveva perso la propria innata esuberanza e il gusto per lo scherzo. Era di temperamento sensibile, sveglio, caldo e appassionato. Aveva il dono della caricatura che esercitò anche per il resto della sua vita in modo arguto e spietato. Di quel periodo la sua più grande passione fu il volo. Prima dei 25 anni aveva già all’attivo parecchie ore trascorse sui primi fragili biplani apparsi sui cieli italiani.
Arrivò quindi il tempo degli studi di legge. La sua iscrizione all’università di Pisa data al 9 dicembre 1904.
La fotografia, scattata ai fini dell’iscrizione, ci mostra un giovane dall’espressione estremamente seria che pare più vicino ai trenta che ai vent’anni. Ha fronte alta e folti capelli a spazzola, occhi profondi e sguardo fermo, mentre nell’espressione della bocca risalta la caratteristica combinazione di risolutezza e affabilità. A prima occhiata l’aspetto fisico del giovane Trentin non colpiva però particolarmente. Era piuttosto piccolo di statura, ma era tarchiato, con spalle larghe e un portamento diritto. Queste caratteristiche, unite alla voce risonante, alla sicurezza di sè e alla straordinaria vitalità che mai gli difettarono, lo rendevano una persona affascinante.
A Pisa, tra le diverse discipline di studio impartite dalla prestigiosa facoltà di giurisprudenza, fu il diritto amministrativo ad attrarre maggiormente Trentin. Il diritto amministrativo infatti, come più giovane branca legale in Italia, gli offriva maggiori opportunità di innovazione e di contributo creativo personale. Silvio aveva sempre desiderato di appartenere all’avanguardia in tutti i campi in cui si cimentava. E così spesso avvenne, come quando Trentin, tra primi in Italia, si interessò di legislazione sulle comunicazioni aeree, o come quando propose una teoria della bonifica integrale che coinvolgesse non solo la terra, ma tutto quanto l’ambiente umano e naturale in cui la bonifica era compiuta.
Gli studi legali Trentin li portò brillantemente a termine nell’autunno 1908. La sua tesi fu giudicata meritevole di stampa. Ma Trentin aveva già esordito come scrittore di diritto, pubblicando il suo primo lavoro, un anno prima, ad appena 21 anni. E, una volta deciso di intraprendere la carriera accademica, Silvio ottenne la libera docenza in diritto amministrativo e scienza dell’amministrazione a Pisa il 10 giugno 1910, a 24 anni. Era allora il più giovane insegnante di diritto in Italia. Un rapido quanto suggestivo ritratto del giovane libero docente ci viene dal grande giurista fiorentino Piero Calamandrei. Calamandrei, di quattro anni più giovane, stava iniziando i suoi studi di legge a Pisa quando Trentin aveva già ottenuto la libera docenza. Egli ricorda l’espressione di Trentin, sono sue parole, come «pensosa e risoluta». Ma ciò che maggiormente ricorda è il senso di soggezione, di rispetto venato di paura, provato da lui e da altri giovani studenti in presenza di Trentin. Poteva persino risentire tale soggezione semplicemente guardando una foto di Trentin del 1940, tanto intensa e vivida era l’impressione ricevuta quando lo vide la prima volta nel 1910, nel cortile dell’università.
Dall’autunno del 1911 Trentin insegnò all’università di Camerino, dove gli furono affidati due corsi ordinari della facoltà di legge. Alla fine del primo anno di insegnamento, nell’estate del 1912, fu promosso da professore straordinario al grado di professore ordinario, il che implicava l’assegnazione permanente della cattedra.
L’anno successivo, dal settembre 1913 al luglio 1914, Trentin potè partecipare a un seminario di specializzazione presso l’università tedesca di Heidelberg.
Questa felice esperienza di studio e di vita fu bruscamente interrotta dallo scoppio del primo conflitto mondiale. L’Italia, come si sa, entrò in guerra il 24 maggio dell’anno successivo.
Prima di cominciare il servizio militare come sottotenente addetto alla Croce Rossa, Trentin trascorse l’estate del 1915 a S. Donà, trattenutovi da gravi questioni personali. In febbraio, dopo una lunga malattia, gli era morto a soli 34 anni il fratello maggiore Giorgio. I due erano uniti da vivo affetto e anche da molti interessi comuni. Giorgio si era laureato in legge a Padova e come Silvio nutriva grande attenzione per i problemi dell’agricoltura. Silvio restava ora il capofamiglia e come tale doveva occuparsi della sistemazione dei beni tanto del padre che del fratello.
In questo periodo inoltre Trentin si fidanzò con Giuseppina Nardari, per tutti Beppa, una donna il cui temperamento e i cui interessi completavano perfettamente i suoi. Era figlia di Francesco Nardari, proprietario e direttore del collegio di Treviso, da cui Silvio era stato espulso per le sue memorabili burle. Evidentemente Giuseppina aveva ereditato alcuni caratteri paterni, perchè tutti quelli che la conobbero asseriscono che era donna di forte volontà, ottima organizzatrice e insolitamente ricca di risorse in tempi di avversità. Era insieme vivace e piena di spirito e possedeva quell’indefinibile qualità che va sotto il nome di gentilezza. Come la maggior parte di quelli che la conoscevano, anche Silvio si sentì attratto dalle sue maniere cordiali e comunicative.
Silvio e Beppa si sposarono a Treviso il 1 aprile 1916: lei aveva 24 anni, lui 30. La loro prima residenza fu una casa recentemente acquistata da Silvio in viale dei Tigli (ora via Cesare Battisti) qui a S. Donà.
In questa casa il 23 luglio 1917 nacque il loro primo figlio a cui, come era tradizione familiare, fu dato il nome di Giorgio. Quattro mesi dopo, occupata S. Donà, le truppe austriache avrebbero requisito la casa per installarvi il loro Quartier Generale.
Trentin, dalla fine del 1915 agli ultimi mesi del 1917, fu occupato con funzioni amministrative presso la Croce Rossa. Si era offerto volontario appena iniziate le ostilità, benchè i suoi trent’anni gli consentissero al momento di restare al suo comodo posto di docente universitario a Camerino. Anzi, di più: Trentin avrebbe potuto essere esonerato dal servizio militare giacchè un incidente di volo, avvenuto nel 1909 o nel 1910, lo aveva reso parzialmente sordo a un orecchio. E invece Trentin partì volontario per quell’etica del dovere che dettò tutte le scelte cruciali della sua vita.
Tutt’altro che nazionalista, Trentin era interventista come lo erano i gruppi radicali, democratici e socialisti riformisti con cui da tempo si identificava. La guerra, per Trentin, doveva essere compimento del Risorgimento, con la restituzione di Trento e Trieste all’Italia, ma anche doveva provocare la distruzione dell’autocrazia austro-tedesca e riaffermare il diritto all’autodeterminazione dei popoli.
Nell’ultimo anno di guerra Trentin fu trasferito dalla Croce Rossa al I° Gruppo Speciale Informazioni della III Armata. Si trattava di un reparto aereo adibito alla ricognizione fotografica e al collegamento con gli informatori che agivano in territorio nemico. Raffaello Levi, amico del tempo, rivela che Trentin fu assai riluttante, nel novembre del 1919, a presentarsi come candidato dell’Associazione nazionale combattenti perché, secondo lui, troppo poco era il tempo in cui aveva prestato servizio attivo al fronte. E in effetti Trentin entrò in azione per la prima volta, probabilmente, solo nella tarda primavera del ’18. Ma quei pochi mesi furono contrassegnati da imprese memorabili.

 

Silvio Trentin

 

Durante la terribile battaglia del Solstizio, nel giugno 1918, che costò all’Italia 90.000 tra morti e feriti e in cui la stessa S. Donà fu completamente rasa al suolo, Trentin fu costretto a sganciare bombe sulla propria casa, ancora sede del comando austriaco. Già da qualche mese però egli poteva vantarsi di aver partecipato alla più lunga ricognizione aerea della guerra. Da bordo di un dirigibile fu infatti fotografata l’intera linea del fronte dal Trentino all’Adriatico. Questa missione gli procurò il primo di una serie di encomi e medaglie. Una di queste medaglie gli fu assegnata per il coraggio che lui e i compagni di equipaggio dimostrarono nella notte tra il 21 e il 22 agosto 1918. Nel rifornire i nostri informatori nel Friuli, il loro Caproni fu colpito ripetutamente dalla contraerea nemica, ma ciò nonostante l’aereo riuscì a rientrare alla base di Marcon. A quel tempo si parlò molto anche di una spericolata manovra di Trentin che in volo si arrampicò sull’ala del suo biplano per spegnere un incendio.
Una settimana prima della fine della guerra Trentin compì la sua missione forse più pericolosa. Come esperto di ricognizione e perfetto conoscitore della topografia della zona, gli fu ordinato di guidare un attacco di bombardieri contro una batteria austriaca che, posizionata alla periferia di S. Donà, seminava la morte nelle nostre linee. L’attacco, compiuto in volo notturno a bassissima quota, ebbe pieno successo e l’artiglieria nemica fu messa a tacere. La cosa però non finì lì per Trentin. Quando S. Donà venne liberata, egli volle recarsi sul posto. Rimase sconvolto da ciò che vide e, rivoltosi all’amico Vittorio Ronchi, disse:

 

“Ho fatto il mio dovere di combattente, ma quale angoscia mi è rimasta nel cuore. Bisogna veramente compiere ogni sforzo per evitare le guerre e ogni forma di brutale violenza”.

 

In Trentin e in milioni di altri uomini la guerra aprì una lacerazione profonda, fu un’esperienza devastante dopo la quale non poterono essere più gli stessi. Negli spiriti migliori, nelle coscienze più attente la guerra fu però anche un terreno fertile da cui far scaturire nuovi sentimenti di solidarietà e di rispetto per l’individuo, insieme ad una acuita sensibilità per il sociale, per i bisogni e le aspettative della gente. La guerra insomma costituì la molla che portò Trentin e altre coscienze sensibili all’attiva partecipazione politica. Non fu comunque per Silvio una scelta facile. Egli aveva sì chiaro il dovere di contribuire alla ricostruzione della nazione italiana in modo da garantirne l’integrità politica ed economica. Ma pensava di farlo nella veste di tecnico. Sottovalutando se stesso, reputava di non avere la stoffa del politico. E così il suo primo contributo, una volta terminata la guerra, fu proprio nella veste di tecnico, quando si ritrovò a svolgere un ruolo fondamentale nella creazione dello strumento più importante per lo sviluppo della regione, ossia l’Istituto federale di credito per la ricostruzione del Veneto, istituito nel marzo 1919.
Nel novembre 1919 però le sue resistenze vennero meno davanti alle preghiere degli amici e si candidò alle elezioni politiche nella lista della Democrazia sociale veneziana. Si trattava di un cartello elettorale che comprendeva raggruppamenti della sinistra democratica riformista. Trentin fu l’unico eletto della lista e il suo fu quindi soprattutto un successo personale.
Sul finire del 1919 ci furono altre novità nella vita dei Trentin: presero stabile domicilio a Venezia, abitando in un appartamento al secondo piano di palazzo Manin, dove pure aveva sede la Banca d’Italia. Il bell’edificio del XVI secolo si trovava in calle larga Mazzini, a pochi passi dal ponte di Rialto. L’altra novità fu la nascita del secondogenito, una bambina, a cui fu dato il nome di Franca.
Veniamo ora alla milizia parlamentare di Trentin. La sua permanenza a Montecitorio fu breve. Durò solo un anno e quattro mesi per la fine anticipata della legislatura, ma si contraddistinse subito per l’alto profilo tecnico e morale, nonché per l’eccezionale mole di risultati.
Due sopra tutti vanno ricordati: il primo fu l’istituzione dell’Ente di rinascita agraria per le provincie di Venezia e Treviso, per il quale Trentin scrisse lo statuto di fondazione; il secondo fu il decreto che autorizzava per cinque anni la spesa per la bonifica integrale di circa 75.000 acri di terreni paludosi che si estendevano tra i fiumi Lemene e Livenza.
L’esperienza parlamentare di Trentin si chiuse nel maggio del 1921. Non fu rieletto in quelle elezioni anticipate che segnarono la sconfitta di tutte le forze politiche intermedie.
Il 1921 fu un anno segnato dal dolore per Trentin. Il piccolo Giorgio fu a lungo tra la vita e la morte per una paurosa caduta dalla finestra di casa. Gli morì improvvisamente il cognato ventottenne. Perse l’amico più caro, il compagno di lotta politica che Trentin chiamava «mia guida, mio maestro di vita»: Mario Marinoni, un uomo di straordinarie virtù morali e intellettuali che Venezia intera salutò come il «santo laico».
La morte di Marinoni aveva ridestato quella vena di pessimismo nella personalità di Trentin che lo induceva a considerare sofferenza e infelicità come elementi centrali della vita. Ma era altrettanto tipico di lui riprendere con vigore l’azione pratica nel momento esatto in cui le circostanze sembravano escludere ogni possibilità di successo.
In quei mesi il principale impegno di Trentin divenne l’organizzazione del famoso e ormai storico convegno sulle opere di bonifica che si tenne a S. Donà dal 22 al 25 marzo 1922. Armato di progetti concreti Trentin, in un discorso poi ricordato a lungo da amici e avversari, dava una nuova interpretazione e quindi nuova dimensione al problema della bonifica agraria.
Nel frattempo Trentin decise di tornare all’insegnamento. Il 24 ottobre 1921 vinse il concorso per la cattedra di diritto amministrativo a Macerata, dove insegnò due anni.
Per certi aspetti questa sua decisione fu una perdita per la democrazia italiana perché egli, secondo il suo costume, prese questo impegno professionale con estrema serietà considerando l’adempimento degli obblighi di docente come una responsabilità prioritaria. Questo senso austero del dovere esigeva che uno dedicasse la vita al bene comune ed esigeva anche la fermezza di non accettare compromessi. Per questa fede, ad esempio, Trentin aveva rinunciato, dopo l’elezione a deputato, alla professione di avvocato e alle numerose consulenze che egli riteneva incompatibili con l’esercizio del mandato parlamentare. Di conseguenza, per far fronte alle spese di famiglia, aveva finito per trovarsi gravemente indebitato verso molti amici devoti.
Alla luce di questi atteggiamenti ben si comprende come l’antifascismo di Trentin sia stato una rivolta morale prima ancora che politica. Con stupore e con sgomento Trentin osservò che la conquista fascista del potere coincideva con una crisi di valori, una crisi di fede in principi ai quali egli, e altri come lui, avevano consacrato la vita. Questa crisi era particolarmente manifesta nella pronta adesione che le oppressive leggi fasciste trovavano in persone a cui Trentin era solito guardare come modelli e guide. Ma anche amici, membri della sua stessa famiglia, colleghi furono tra i primi ad abbracciare la causa del fascismo.
Trentin reagì comunque da par suo. Aumentò anziché diminuire la sua attività di oppositore, partecipò sistematicamente a tutti i tentativi di formare un grande partito liberaldemocratico antitetico negli uomini e negli ideali al nuovo regime. E il regime Trentin osò sfidarlo apertamente quando, con alcuni amici di S. Donà, il 4 novembre 1924 si recò a Fratta Polesine per rendere omaggio alla tomba di Giacomo Matteotti. All’entrata in cimitero lui e gli amici furono costretti ad esibire i documenti ai carabinieri. Questo affronto alla sua dignità di uomo libero si ripeté agli inizi del 1925 allorché uno squadrista veneziano gli impedì di entrare a Ca’ Foscari per svolgervi la sua lezione.
Era dal 1923 che Trentin insegnava all’ateneo veneziano, la qual cosa gli aveva consentito di essere nuovamente vicino ai vecchi compagni di lotta. Trentin però percepiva con sempre maggiore insofferenza la situazione paradossale di essere al contempo un funzionario di quello stesso governo di cui era ormai un irriducibile avversario. Così quando il regime emanò il 24 dicembre 1925 un decreto che privava tutti gli impiegati dello Stato della loro libertà politica ed intellettuale Trentin decise di dimettersi. Lo fece il 7 gennaio 1926 con una lettera che val la pena di citare quasi per intero:«Ill.mo Signor direttore
ragioni d’ordine personale e soprattutto il dubbio (quasi direi la certezza) di non saper conciliare il rispetto delle mie più intime e salde convinzioni di studioso del diritto pubblico con l’osservanza dei nuovi doveri di funzionario che mi vengono imposti dalla legge 24 dic. 1925, n. 2.300, in questi giorni pubblicato dalla Gazzetta Ufficiale, mi inducono a rassegnare le mie dimissioni da professore stabile presso codesto Istituto Superiore».
La scelta di Trentin nelle università italiane fu seguita solo da Salvemini e Nitti, mentre altri due docenti furono allontanati dall’incarico.
Insieme alle dimissioni, Trentin maturò l’idea dell’esilio. Agli amici che cercavano di dissuaderlo rispondeva:

 

“Non posso rimanere in Italia. Se fossi un professore di matematica forse potrei anche restare, ma come professore di diritto, come posso rimanere qui ad insegnare quando l’attuale regime è contrario a tutto quanto io credo? Come posso assistere qui impotente che la forza del diritto sia sostituita con il diritto della forza”?

 

I Trentin attraversarono il confine con la Francia il 2 febbraio 1926. Li attendeva il loro nuovo domicilio, Ville du Cedon, una bella tenuta agricola non lontana da Auch, nel sud-ovest francese. Trentin l’aveva acquistata qualche settimana prima, dopo aver venduto tutti i suoi beni in Italia. Si illudeva che la caduta del fascismo sarebbe presto avvenuta. In realtà dovette attendere il settembre del 1943 per rimettere piede in patria, quasi diciotto anni dopo.
Gli anni francesi furono senz’altro esaltanti per Trentin che sviluppò il suo pensiero politico in modo straordinariamente originale e fecondo. Intensa e continua fu la sua attività di saggista. Nel 1929 Trentin seppe ancora una volta anticipare tutti. Con la sua opera Les transformations recentes du droit public italien, come gli riconobbe Calamandrei. Trentin attuò in assoluto la prima seria analisi scientifica dell’ordinamento giuridico fascista che “i costituzionalisti italiani per servilismo o per paura continuavano a rappresentare nei loro libri come una perfetta incarnazione dello Stato di diritto”.
Come l’attività pubblicistica, anche quella politica fu continua ed instancabile. Sebbene in disparte nella provincia francese, lontano da Parigi dove risiedeva il nucleo centrale dell’antifascismo italiano, Trentin fu sempre considerato e ascoltato come un leader, talvolta come guida di un’organizzazione, più spesso come guida morale. Lo fu dapprima nel partito repubblicano e nella Lega italiana dei diritti dell’uomo; lo fu quindi nella cosiddetta Concentrazione antifascista e nel movimento Giustizia e Libertà; lo fu infine nella resistenza francese e in quella italiana, sino – possiamo dirlo – agli ultimi giorni della sua vita. Suoi interlocutori furono uomini altrettanto eccezionali come Carlo Rosselli, Emilio Lussu, Gaetano Salvemini e poi, via via, altri fuoriusciti come Francesco Volterra, Ruggero Grieco, Alberto Tarchiani e altri. Se poi dovessimo indicare un solo elemento distintivo nell’azione politica di Trentin in quegli anni, segnaleremmo il tenace perseguimento del fronte unico antifascista. Fu quasi naturale perciò che proprio a Trentin toccasse il compito di sottoscrivere per Giustizia e Libertà il cosiddetto patto di Tolosa del 1941 che ripristinava, con il partito comunista., l’unità d’azione perduta con lo sciagurato accordo Molotov-Ribbentrop del 1939.
Sul piano strettamente privato ed umano il periodo francese fu anche contrassegnato da sofferenze e sacrifici.
Il tempo di Ville du Cedon durò poco. Trentin aveva investito in questa impresa agricola quasi tutto il capitale che si era portato dall’Italia. Pensava in questo modo di sostentare la famiglia cresciuta di numero con la nascita di Bruno nel dicembre 1926. E pensava, con questo forte investimento, di attuare degli esperimenti agrari. Dal punto di vista tecnico i suoi sforzi furono ampiamente premiati, ma la crisi monetaria che colpì la Francia in quell’anno e il grosso immobilizzo finanziario misero nei guai Trentin proprio all’inizio della sua avventura. Di conseguenza egli vendette la proprietà e si trasferì in un modesto appartamento ad Auch, nel centro della città. Ciò avvenne probabilmente entro l’aprile del 1928. Con un’oculata gestione dei pochi risparmi rimasti riuscì a mantenere la famiglia per un altro anno.
Quell’estate del 1928 – come dicevo all’inizio di questa conversazione – Trentin soffrì il tormento della nostalgia. Lo preoccupava soprattutto l’idea che i contatti con gli amici di Venezia e S. Donà venissero meno. Le sue lettere anche le più innocenti, come lui diceva, si perdevano per strada. Le persone che dall’Italia andavano a fargli visita erano poi persuase dalle autorità di polizia di non ritornarvi. Ma era ogni movimento di Trentin che veniva minuziosamente controllato dall’OVRA, la polizia segreta fascista. I suoi scritti arrivavano in Italia solo per via clandestina e poi circolavano alla macchia. Secondo Aldo Garosci, Trentin riuscì però una volta a farsi beffa dei suoi controllori. Inviò copie del suo già citato Les trasformations recentes… a diverse biblioteche italiane che le accettarono, ingannate dal titolo inoffensivo.
Se dunque, giocoforza, Trentin ebbe solo sporadicamente il conforto degli amici veneti, è altrettanto vero che costoro gli dimostrarono sempre una commovente dedizione. Grazie al fratello minore, Bruno, l’unica persona che poteva avvicinarlo senza sospetto, lo aiutarono economicamente nei momenti più difficili; né trascurarono poi il rapporto politico, essendo essi stessi membri di Giustizia e Libertà. Ve li voglio ricordare i nomi di questi amici, persone discrete che, nulla ostentando, hanno un debito con la storia: sono Camillo Matter di Mestre, Angelo Fano di Venezia, Galliano Corazza di Santo Stino di Livenza, i sandonatesi Baron, Boccato, Picchetti, Rizzo, Emilio Guerrato, i fratelli Janna, Gianni Nardini, Nino Perissinotto.
Dicevamo in precedenza che Trentin nondimeno riuscì a porre salde radici nella patria d’adozione. Leggeva e scriveva il francese e lo parlava correttamente, in modo quasi impeccabile. Nonostante il forte accento italiano il suo era un francese molto distinto. Grazie alla padronanza della lingua e alla conoscenza del pensiero giuridico francese, Trentin non ebbe difficoltà a intrattenere ottimi rapporti con i giuristi d’Otralpe, alcuni dei quali divennero suoi sinceri amici.
L’esperienza fondamentale nella vita privata di Trentin in quel periodo fu però un’altra: fu l’umile lavoro di manovalanza che Silvio esercitò per circa tre anni in una tipografia di Auch. Si adattò a tagliare la carta, trasportare casse e scatoloni, portare il materiale agli altri operai. Trentin non si sentì per nulla avvilito da questo lavoro che anzi considerò come una delle parentesi più serene della sua vita. Insistè sempre per essere trattato sotto tutti gli aspetti come chiunque altro alla tipografia.
Nel maggio 1934 Trentin fu però licenziato, dopo un periodo di tensione con la proprietà della tipografia. Per cinque o sei mesi la situazione finanziaria dei Trentin fu davvero disperata. Beppa dovette vendere i gioielli di famiglia e gli antichi mobili veneziani che si era portati dall’Italia. Compì diversi viaggi in patria per chiedere l’aiuto di parenti e amici. Fortunatamente giunse in Francia a soccorrerli Camillo Matter con una consistente somma di denaro. Silvio potè così imbarcarsi in una nuova avventura: acquistò una piccola, ma nota libreria di Tolosa, la Librairie du Languedoc, e si trasferì con la famiglia nella bella città verso la fine del 1934.
La libreria, con Trentin proprietario, divenne un vero salon, dove si scambiavano idee e si lanciavano nuove imprese intellettuali, il che però avveniva a scapito della vendita dei libri. Se Trentin riuscì a trarne di che vivere fu solo perchè diversi professori dell’università e alcuni personaggi influenti di Tolosa raccomandarono espressamente a studenti e amici di comprare i libri da lui. Ma la libreria di Trentin divenne anche centro di azione politica al punto che, durante la guerra civile spagnola, fu – secondo Emilio Lussu – «una specie di ambasciata, la sede dei collegamenti irregolari fra la Francia e Barcellona». Più tardi, dopo la caduta della Francia e l’avvento del regime di Vichy, divenne – per dirla con Jean Cassou – «le centre principal pour l’intelligentsia (antifasciste) de Toulouse». La piccola bottega aveva anche un qualcosa che non tutti conoscevano: uno scantinato segreto, dove, durante la resistenza, trovarono nascondiglio cospiratori antifascisti e agenti inglesi e francesi per lunghi periodi di tempo. Inoltre la cave si prestava benissimo alle riunioni clandestine.
Oggi, davanti alla libreria, una lapide – ovviamente in francese – recita:

 

“In questa casa visse dal 1934 al 1943 Silvio Trentin. Esiliato volontario, iniziatore della lotta antifascista e del movimento clandestino di liberazione dell’Europa, capo della resistenza italiana nel 1943, catturato dal nemico e morto a Treviso il 12 marzo 1944”.

 

Devo forzatamente tralasciare tutto il lavoro politico e organizzativo, tutta l’incessante ricerca intellettuale che vanno fino al suo ritorno in Italia. Meritano tuttavia di essere citati alcuni episodi che di Trentin confermano il suo spessore umano, la sua statura morale, il suo coraggio personale.
Della guerra di Spagna ho appena detto il ruolo che ebbe la sua libreria. Aggiungo solo che al di là dei Pirenei si recò almeno quattro volte, come corrispondente di guerra di Giustizia e Libertà e consulente militare. Aveva allora 51 anni.
Il 9 giugno 1937 Trentin provò ancora una volta il dolore e lo sgomento per la perdita di una persona cara, una perdita che apparve subito una terribile tragedia per G. L. e l’intero movimento antifascista. Quel giorno, a Bagnoles de l’Orne, sicari armati da Roma assassinarono Carlo Rosselli e il fratello Nello. Tre giorni dopo, in un articolo, Trentin svelò il suo dolore:

 

“Scrivo con l’animo in tumulto, più che per adempiere a un dovere – chè mi manca la forza di farlo – per gridare il mio orrore, il mio sgomento, la mia indignazione, per dar sfogo al mio tormento nostalgico, per mitigare la violenza incontenibile della mia passione, della mia ribellione, del mio odio mortale”.

 

Il 24 giugno a Tolosa, davanti a 20.000 persone, Trentin lanciò il suo atto d’accusa contro le alte gerarchie fasciste. La risposta minacciosa del regime non si fece attendere. Roberto Farinacci, il ras di Cremona, disse che, se Trentin non avesse desistito da questa violenta propaganda contro il regime fascista, avrebbe subito la stessa sorte dei Rosselli. Una telefonata anonima, proveniente dal consolato di Tolosa, avvertì che c’era in atto un complotto contro Trentin. Quella notte un amico armato vegliò in casa Trentin, ma fortunatamente non accadde nulla.
Quanto fosse profondo il senso della lealtà e del dovere in Trentin l’abbiamo potuto ben conoscere. E proprio per un genuino sentimento di lealismo verso la sua seconda patria, cui tanto doveva, Trentin chiese di arruolarsi nell’esercito francese nel settembre 1939. Restò deluso quando il governo Daladier respinse la sua domanda, assieme a quella di altri esiliati italiani, per non inimicarsi Mussolini (a quell’epoca l’Italia era non belligerante). A parte l’età – aveva allora 54 anni – Trentin difficilmente poteva prestare servizio attivo per le sue cagionevoli condizioni di salute. Soffriva di vari malanni che lo avrebbero accompagnato per il resto della sua vita. Costringendolo a volte all’inattività, lo incupivano e gli creavano un forte senso di frustrazione. Il più grave di questi malanni era un disturbo cardiaco che si manifestò per la prima volta nell’aprile 1941. Nello stesso 1941 a Trentin furono offerti due incarichi universitari in America.
Avrebbe dovuto e potuto accettarli, dato che ormai nella lotta per la libertà aveva speso copiosamente i suoi anni, la sua salute. Lì in America si erano rifugiati amici come Alberto Tarchiani, Franco Venturi, Marion Rosselli. Per la verità Trentin prese in seria considerazione la cosa e fu sul punto di dire di sì. Ma «una crisi di coscienza», come lui ebbe a dire, lo indusse a restare in Francia. Il senso del dovere quindi prevalse ancora una volta sul desiderio di sicurezza per sè e la famiglia.
Passarono così altri due anni colmi di pericoli e sacrifici, ma anche di passione civile e di impegno umano nella resistenza francese. E finalmente, con la caduta del fascismo il 25 luglio 1943, venne il tempo di tornare in patria.
Silvio ormai era un uomo malato, ma del combattente aveva intatto tutto l’entusiasmo e la grinta.
A fine luglio o ai primi di agosto tentò di rientrare clandestinamente in Italia con un viaggio che aveva del rocambolesco: attraversare i Pirenei e la Spagna, giungere in Nordafrica e di lì paracadutarsi in Italia. Forti dolori al petto e un grave attacco d’asma lo costrinsero a rientrare a Tolosa.
In agosto però il governo Badoglio tolse le restrizioni alla frontiera e Trentin potè rientrare legalmente in patria. Con lui viaggiavano in treno la moglie, i figli Giorgio e Bruno, mentre Franca restò in Francia.
Il 4 settembre furono a Mestre, il giorno dopo a Treviso, dove una folla festante si recò spontaneamente ad accoglierlo alla stazione.

Silvio Trentin

 

Il 6 settembre finalmente Trentin arrivò nella sua città natale. Fu un’accoglienza trionfale quella che gli riservarono gli abitanti di S. Donà. Silvio naturalmente era felice ed emozionato di rivedere i vecchi amici, ma non fu dello stesso umore con tutti. Si rifiutò di stringere la mano a diverse persone che avevano aderito al partito fascista, mentre il saluto al parroco, mons. Luigi Saretta, fu corretto ma freddo. La seconda visita a S. Donà fu di ben altro tenore. Una settimana dopo l’armistizio dell’8 settembre, con il territorio controllato dai tedeschi, la popolazione terrorizzata gli chiuse tutte le porte. Essere respinto in questo modo, nonostante le circostanze del pericolo, fu una delle esperienze più penose della vita di Trentin.
Dal 9 settembre al momento dell’arresto, la sera del 19 novembre, Trentin lavorò in prima linea all’organizzazione politica e militare della resistenza nel Veneto.
A Treviso e Feltre tentò invano di far distribuire dai comandi militari le armi alle nascenti forze della resistenza. A Padova partecipò alle prime riunioni organizzative del Comitato di liberazione nazionale per il Veneto. Si spostò poi a Mira, dove la casa della famiglia Fortuni, per le successive quattro o cinque settimane, divenne il suo quartier generale.
Fra il 15 e 25 settembre il professor Ferrari – questa era la sua falsa identità – intervenne a tutta una serie di incontri in Bavaria, un piccolo centro sulla strada tra Bassano e Treviso. Qui si posero le basi per costituire nel Veneto un comando militare unificato delle forze della resistenza.
Il 23 ottobre Trentin scrisse una lunga lettera a Lussu, in cui declinava l’invito ad entrare nella direzione centrale del CLN perchè il suo posto di battaglia era qui nel Veneto e non nella capitale.
«Ognuno si aspettava e desiderava che Trentin facesse ogni cosa, tutti si appoggiavano alla sua inestimabile esperienza, alla sua intelligenza, alla sua autorità morale», ricorda Giuseppe Zwirner. E Tessari, forse il principale storico militare della resistenza veneta, riconosce a Trentin il merito di aver dato l’impulso decisivo al movimento partigiano e soprattutto quello di aver fatto valere la superiorità del comando politico su quello militare.
Il comando politico, fino al dicembre 1943, aveva la sua centrale a Padova; Trentin ne era membro, insieme ad Egidio Meneghetti, per il Partito d’azione. Il grande latinista Concetto Marchesi, che ne era membro per il partito comunista, ricordava con commozione Trentin, “i suoi sguardi – lo cito testualmente – che indugiavano nel frugare il segreto sentimento dell’amico, la malinconia del volto che voleva schiudersi alla gioia dell’aperto consenso, le strette di mano che tardavano ad allentarsi, come ad assicurarsi il tacito accordo dell’anima”.
Il 1 novembre 1943, dalle pagine di «GL», il giornale degli azionisti di Padova, Trentin lanciò il suo “Appello ai Veneti guardia avanzata della nazione italiana». Vi si leggeva: «E’ il momento di darsi alla macchia, di raggrupparsi, di ricominciare insieme nella fraternità di una libera federazione di pionieri della nuova Italia, di armarsi, di battersi e, se occorre, di morire”.
Verso la fine di ottobre Trentin si trasferì da Mira a Padova per impegnarsi più intensamente sul fronte politico e della propaganda. Lo ospitarono i coniugi Monaci, in un appartamento nel cuore della città, e lì lo raggiunse il figlio sedicenne Bruno. Dina Monaci ricorda che Trentin parlava spesso con nostalgia delle sue esperienze in Spagna, mentre soffriva intensamente al pensiero che egli difficilmente avrebbe potuto vedere la liberazione d’Italia. Il suo sdegno verso i fascisti invece si era trasformato in odio implacabile e selvaggio. Dina restava stupita di sentire una persona «così semplice e buona, così eccellente» – sono sue definizioni – fantasticare di vendette e stermini atroci.
La sera del 19 novembre agenti fascisti irruppero nell’appartamento dei Monaci, arrestando tutti i presenti. Silvio e Bruno furono sottoposti a interrogatori per due giorni nella sede centrale della polizia e quindi trasferiti al carcere dei Paolotti. Fortunatamente al momento dell’arresto erano riusciti ad ingoiare le carte più compromettenti. Così la polizia fascista, ancora disorganizzata, si ritrovò ad avere in mano, come prigionieri, un uomo malato e suo figlio con l’unica imputazione di possesso di documenti falsi e li rilasciò.
Trentin uscì di prigione, ai primi di dicembre, debilitato dai suoi disturbi cardiaci. Un grave attacco di angina pectoris lo colpì proprio nel giorno del rilascio e subito, il 6 dicembre, fu ricoverato all’ospedale di Treviso. Qui rimase poco più di due mesi, fino all’11 febbraio 1944, quando i violenti bombardamenti aerei sulla città ne consigliarono il trasferimento in un’altra clinica, a Monastier, Trentin lottò tenacemente contro il male, ma non poteva illudersi sull’esito finale. Enrico Opocher ricorda che «era calmo e preparato a morire». In realtà tutto era pronto ad accettare serenamente, come lui stesso ebbe a dire a Opocher, “purchè l’Italia si salvi”.
Nei due mesi di dicembre e gennaio in cui fu degente all’ospedale di Treviso, Trentin fece il possibile per mantenere i contatti con i compagni di lotta che, in effetti, quasi quotidianamente gli facevano visita . Riuscì persino a dettare a Bruno un abbozzo di costituzione per l’Italia del dopoguerra, sulla falsariga di quello per la Francia, scritto un anno prima, e che costituiva la base del suo progetto di democrazia socialista federale. Riuscì inoltre a scrivere un ultimo Appello ai lavoratori delle Venezie. Nel documento si riaffermava che la rivoluzione federalista e socialista doveva necessariamente svilupparsi su scala mondiale. Trentin chiudeva con queste parole: «Vivano i popoli per la loro redenzione! Viva l’Italia libera!». Il suo sogno infatti non era solo la redenzione dal nazifascismo, ma da tutte le forme di oppressione e di degradante sfruttamento.
Voglio ora lasciare alle parole di Frank Rosengarten il compito di ricostruire gli ultimi giorni di vita di Trentin, in quella clinica Carisi di Monastier, dove si trovava dall’11 febbraio 1944:

 

“La sede della clinica – scrive il biografo americano – era una delle ville settecentesche tipiche della zona … Dalla finestra della camera, al secondo piano, si poteva contemplare il paesaggio familiare della grande pianura veneta. Era ancora inverno, ma fra la fine di febbraio e i primi di marzo, il tempo cominciava già a cambiare. C’era nell’aria un fremito di primavera accolto da Trentin con gioia e con la spontanea promessa a Beppa che «quando sbocceranno i primi fiori li porteremo in camera nostra». L’11 marzo l’amico Camillo Matter andò a trovare Trentin. Durante la conversazione Trentin ebbe una «crisi tremenda» di dolori cardiaci. Parlarono soprattutto di problemi politici. Trentin disse … che voleva andare a Roma, per dedicarsi all’organizzazione della resistenza in questo settore. … Manifestava tutto il proprio risentimento contro molti vecchi amici veneziani che per sopravvivere si erano iscritti al Partito fascista o si erano adattati in qualche modo più o meno compromettente al regime. Il suo sdegno arrivava a colpire anche persone per le quali in altri tempi aveva avuto la massima stima, come lo storico ed economista Gino Luzzato, la cui condotta politica nel ventennio fascista era stata tutt’altro che ineccepibile. Fino alla fine, osserva Matter, l’intransigenza di Trentin restò così rigida da confinare con l’intolleranza.
… Quando il 12 marzo sopraggiunse la fine v’erano accanto a lui solo due persone, Beppa e Giorgio, il figlio maggiore. (Al sopraggiungere dell’attacco fatale) passò diverse ore di violenti dolori. Benchè confortato dalla presenza della moglie e del figlio, aspettava con impazienza alcuni amici che non potevano venire, e rimpiangeva che l’opera che lasciava fosse incompiuta. Per un attimo, il suo volto fu alterato ed espresse un’angosciata disperazione. Ma con l’avvicinarsi della fine, riprese un’espressione di equilibrio e serenità.
Silvio Trentin fu sepolto a S. Donà di Piave due giorni dopo la morte, la sera del 14 marzo. Come corteo funebre c’erano solo Beppa, Giorgio, Bruno e Camillo Matter, che camminarono verso il cimitero al seguito di un carretto, su cui giaceva la bara. Per tutta la strada, fino al cimitero, la polizia fascista, nervosa e preoccupata perchè le autorità di Padova avevano dato ordine di non lasciar passare il funerale attraverso il centro di S. Donà, per paura di possibili dimostrazioni, sorvegliò la famiglia e il più fedele amico di Trentin. Le esequie si svolsero in un’atmosfera di sospetto e quasi di clandestinità. Ma nessuna menzogna, nessuna repressione fascista avrebbe potuto far dimenticare che Silvio Trentin aveva lottato con tutte le sue forze per la causa della liberazione dell’umanità”.

 

Silvio Trentin

 

Con queste parole si chiudeva la splendida biografia di Trentin che Frank Rosengarten pubblicò nel 1981.
Oggi noi siamo qui riuniti a commemorare Silvio Trentin a cinquant’anni dalla morte. E cinquant’anni sono trascorsi pure dall’accorato necrologio che Egidio Meneghetti – suo fraterno amico nella resistenza a Padova – gli dedicò il 15 maggio 1944 sul giornale clandestino “Fratelli d’Italia”. Cinquant’anni appaiono molti per chi vive i nostri tempi frenetici e convulsi. Eppure credo che nulla possa eternare nei nostri cuori Silvio Trentin più di quelle commosse parole che, per l’appunto, cinquant’anni fa scrisse Egidio Meneghetti:

 

“Cerchiamo di restar fedeli alla nobiltà del suo esempio. Tramandiamo ai giovani la memoria del suo animo incorrotto. Ne abbiamo ancora bisogno”.

 


Moreno Guerrato , commemorazione ufficiale nel 50° anniversario della morte di S. Trentin, San Donà di Piave 12 marzo 1994.

 

Il documento si fonda interamente sulla mirabile biografia scritta da Frank Rosengarten, Silvio Trentin dall’interventismo alla Resistenza, Milano, Feltrinelli, 1980

Ultimo aggiornamento: 24/09/2024, 17:12

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